L’inversione

di Daniela Pavoletti

Non mi stupisce più l’eco delle parole che rimbalzano oltre il tempo e che uniscono poeti di oggi e di sempre; non mi stupisce più questa eco, ma mi meraviglia e mi apre il cuore perché il potere delle parole è ciò a cui mi aggrappo nel mio quotidiano.

A dicembre, sul sito di Ecologia Umana, è stato pubblicato un articolo dal titolo “Santa Lucia e la luce”, era incluso un podcast con testi della poetessa Franca Mancinelli; alcune parole si sono fermate dentro di me: “Mi è venuto incontro un albero, dal tronco molto segnato – Tutti gli occhi che ho aperto sono i rami che ho perso – mi ha detto” e ancora “Per vedere la realtà anche nella sua parte di tenebra, ci vuole molta forza”.

Da qualche tempo è tornata prepotentemente nella mia vita “La Divina Commedia” di Dante Alighieri, l’opera del “sempre” e del “tutto”, l’opera che, a mio avviso, incarna i valori inclusi nell’espressione “ecologia integrale”, utilizzata da Papa Francesco nella sua enciclica “Laudato sii”.
I due poeti, come forse tutti i poeti, ci dicono che il dolore, la fatica, l’ombra non sono altro da noi, sono in noi.
Il viaggio raccontato da Dante ce lo insegna.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.”
(Inferno, Canto I, vv 1-9)

Nelle famosissime terzine che aprono “La Divina Commedia” troviamo già tutta la verità: l’aggettivo nostra del primo verso ci dice che tutta l’umanità può perdersi nella selva oscura ma Dante racconta il SUO viaggio ( il pronome mi del secondo verso ce lo indica) perché l’attraversamento della propria selva selvaggia, aspra e forte deve essere compiuto da ciascuno di noi. Altri possono aiutarci, sostenerci, indicarci la via (non a caso Dante sarà accompagnato da tre guide fino all’incontro con Dio) ma nessuno può camminare al posto nostro.
In ogni caso la paura, con il suo sapore amaro, e l’ombra della morte non impediscono a Dante di dichiarare fin da subito che alla fine troverà il bene.
Il cammino verso il bene è lungo e prevede l’attraversamento del dolore, del peccato, dei lati oscuri dell’uomo; non basta evitare il male per raggiungere il bene, dobbiamo incontrare le nostre ferite, riconoscerle e trasformarle.
Dopo aver attraversato tutto l’Inferno, Dante e Virgilio arrivano nella quarta zona del Cocito e vedono Lucifero “lo ‘mperador del doloroso regno”; hanno già attraversato sofferenza e pena ma la vista del male lascia Dante “gelato e fioco”, senza più calore e senza più energia.
Eppure proprio nel momento più difficile avviene l’inversione.

“Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ‘n inferno i’ credea tornar anche.
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse ‘l maestro, ansando com’uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
(…)
Lo duca e io per quel cammino ascoso,
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.”
(Inferno, Canto XXXIV, vv 76-87 e vv 133-139)

Virgilio, con Dante avvinghiato al suo collo, scende lungo il corpo di Lucifero, attaccato ai suoi peli; all’altezza del bacino del mostro c’è lo strato di ghiaccio infernale, i due si infilano fra il ghiaccio e il corpo di Lucifero e lì, nel punto che per Dante è il centro della Terra, ovvero il punto più lontano da Dio, Virgilio “con fatica e con angoscia” si gira, cambia direzione, inverte la rotta e comincia la risalita verso il “chiaro mondo”.
Per uscire a riveder le stelle è necessario entrare all’Inferno, un’altra strada non c’è.
Per aprire gli occhi su noi stessi e sulla nostra vita dobbiamo perdere rami, separarci, abbracciare le nostre ferite; si può sopravvivere anche evitando la fatica ma avremo solo il crepuscolo e non la luce di una vita nuova.

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