Alla ricerca di un dialogo sulla pandemia
riflessioni di Giuseppe Mezzino
L’articolo che segue prende spunto da alcuni passi del documento ‘Piccolo Manifesto in tempi di pandemia’ realizzato dal collettivo ‘Malgré Tout’ formato dai francesi Miguel Benasayag, Bastien Cany, Angelique Del Rey, Teodoro Cohen e dagli italiani Roberta Padovano e Mary Nicotra.
Invitiamo tutti a partecipare a questo dialogo, a riflettere ed esprimere il proprio sentire
È possibile proporre, oggi, un dibattito aperto e pacato sul tema della pandemia e dell’informazione divulgata intorno a tale argomento?
Qualora non si rispettino rigidamente le regole imposte dalla narrazione ufficiale, temo che non solo non sia possibile nelle forme auspicate ma peggio, ci si esponga al rischio di un linciaggio mediatico con l’accusa di sostenere orientamenti ideologici quali negazionismo e complottismo. Nonostante tutto, mi espongo volentieri a tale rischio con l’intento di far prevalere il libero pensiero su ogni altra considerazione.
La campagna ossessiva che ha caratterizzato il periodo che va dall’annuncio della preparazione del vaccino fino alla sua disponibilità ha impedito da un lato di indagare sulle cause che stanno alla base del periodo drammatico che stiamo attraversandolo e dall’altro di sviluppare un’informazione responsabile e puntuale sul meccanismo di funzionamento e difesa del nostro sistema immunitario. A fronte della macabra contabilità giornaliera di contagi e decessi è mancata l’indispensabile divulgazione sulle pratiche con le quali è possibile rafforzare il nostro sistema immunitario favorendo una capacità di risposta naturale alla possibilità non tanto di evitare il contagio quanto di ridurre le sue nefaste conseguenze.
Quanto spazio è stato dedicato dagli organismi che devono vigliare sulla nostra salute e dai mezzi di informazione a quelle pratiche di benessere individuale che riguardano la nostra vita quotidiana?
Quanto tempo è stato dedicato ad informarci sui benefici per il nostro sistema immunitario derivanti da una corretta alimentazione, da una costante attività fisica, dallo sviluppare il contatto con la natura pur nella diversità delle condizioni abitative, dalla capacità di osservarsi nelle percezioni che, costantemente, il nostro corpo ci trasmette, dalle pratiche di meditazione che favoriscono un riequilibrio del rapporto corpo-mente?
Tutta l’attenzione è stata rivolta al distanziamento, all’uso dei cosiddetti dispositivi di protezione individuale, al consumo febbrile di igienizzanti, alle discipline normative dei movimenti delle persone, ecc… La metafora della guerra contro un nemico invisibile in agguato perenne alla nostra integrità si è insinuata come una minaccia che, pur essendo coscienti, è stata vissuta come astrazione facendo sì che rimanessimo paralizzati dall’angoscia.
E l’angoscia, una condizione senza oggetto, non spinge all’agire.
È interessante notare che di fronte ad una situazione relativamente inedita (l’umanità ha già vissuto nel corso della sua storia eventi di tale gravità), sono emerse due interpretazioni opposte. Da un lato chi afferma che, di fronte ad un fatto di tale portata, deve essere trovata una soluzione sotto forma di un vaccino o di un farmaco. Naturalmente, questa interpretazione della crisi non mette in discussione il paradigma del pensiero e dell’agire dominanti.
Dall’altro lato il coronavirus è interpretato come l’espressione di una criticità che segna il punto di non ritorno a partire dal quale il nostro rapporto con il mondo ed il posto occupato dagli uomini nell’ecosistema devono essere profondamente messi in discussione.
E’ sufficiente scorrere le statistiche sulla crescita della spesa medica in tutti i paesi del mondo occidentale per ricevere conferma del fatto che viviamo in una società fortemente medicalizzata dove il ricorso indiscriminato ai farmaci è diventata la cultura diffusa alimentata da giganteschi interessi economici. Quando la bandiera della sopravvivenza viene agitata e ne è prova la martellante campagna attuale, gli individui si lasciano disciplinare perdendo ogni capacità critica. La riprova è data dal considerare il vaccino come l’uscita dal tunnel covando l’illusione che tutto tornerà come prima rimuovendo, di fatto, tutte le considerazioni sulla fragilità intrinseca al nostro mondo e sul cambiamento radicale del modo in cui lo abitiamo.
La storia ufficiale ci dirà che abbiamo vissuto, affrontato e vinto uno sfortunato incidente imprevedibile. Ci spiegherà poi che è necessario raddoppiare i nostri sforzi per superare la resistenza della natura all’onnipotenza umana Ora quello che, in modo irresponsabile, chiameranno un incidente era in realtà così “imprevedibile” che biologi ed epidemiologi l’avevano previsto da venticinque anni. Tra i molteplici vettori all’origine delle malattie emergenti e riemergenti, si sa che la distruzione dei meccanismi di regolazione metabolica degli ecosistemi, legata in particolare alla deforestazione, svolge un ruolo preponderante. Inoltre, l’urbanizzazione selvaggia e la costante pressione delle attività umane sugli ambienti naturali favoriscono situazioni di promiscuità inedita tra le specie. Emerge, in modo chiaro, che la visione secondo cui l’essere umano era il soggetto che doveva imporsi come padrone e possessore della natura ci appare sotto il vero volto da incubo.
Gli stessi biologi ed epidemiologi ricordano che, se non invertiamo la rotta, ci troveremo sempre più frequentemente ad affrontare nuovi episodi pandemici. Saremo disponibili a sottoporci a pratiche di vaccinazioni continue con la stessa facilità con cui la stragrande maggioranza degli individui fa ricorso ad analgesici contro il mal di testa o ad antiacidi per aver mangiato troppo e male?
È vero che abitiamo un mondo complesso ed è tristemente forte la tentazione di delegare il nostro potere di agire ai tecnocrati o alle macchine algoritmiche il cui esito sarà l’obbedienza del buon popolo a un potere mascherato sotto forma di verità scientifica.
Potremo uscire da questa crisi i cui caratteri sono sempre meno occasionali e sempre più permanenti?
È impossibile dare una risposta ma ciò non deve impedirci di intraprendere un processo di emancipazione collettiva attraverso il riconoscimento della fragilità intrinseca della nostra esistenza riappropriandoci del corpo inteso come espressione della soggettività.
Non si tratta quindi di pensare al giorno che verrà, vivendo il presente come una semplice parentesi.
La nostra vita si svolge oggi.
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Caro Giuseppe, leggendo il tuo articolo mi sono rispecchiata quasi completamente nel tuo sentire…
L’ampliamento di prospettive,
La possibilità che ognuno di noi dona (prima di tutto a se stesso) di vedere questa situazione come un’opportunità preziosa per mettersi in discussione, per risvegliare le proprie capacità sensitive (intese come capacità innata di sentire il mondo, attraverso il proprio personalissimo filtro), la possibilità di fare un bagno di umiltà, riconoscendo che la Natura non ha assolutamente bisogno di noi…
Il valore del silenzio come momento che amplifica e lascia respiro all’ascolto…(che stà alla base di una condivisione foriera di ricchezza)…la possibilità di ritrovare se stessi semplicemente come esseri umani al di là del ruolo con il quale ci facciamo riconoscere e che, spesso, non racconta proprio nulla di ciò che siamo…
La possibilità di rivelare (a noi stessi) lo scrigno prezioso che siamo…
Forse lavorare sulle emozioni, avere il coraggio di allontanarsi dal frastuono che crea confusione, la necessità di focalizzare l’attenzione sul proprio radicamento, potrebbe essere d’aiuto per diradare questo fumo che qualcuno tiene alto…
Perché sarà comunque, in ogni caso, ciò che deve essere…