Io sono un colibrì
di Norbert Lantschner
Estratto da un intervento di Norbert Lantschner al Seminario “Quale psicoterapia per il cambiamento climatico”
Io faccio la mia parte e questo crea la differenza
Agire per un mondo in cui vorrei vivere
Dal preambolo della Carta della Terra: “Ci troviamo in un momento critico della storia della Terra, un periodo in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. In un mondo che diventa sempre più interdipendente e vulnerabile, il futuro riserva contemporaneamente grandi pericoli e grandi promesse.
Per andare avanti dobbiamo riconoscere che all’interno di una straordinaria diversità di culture e di forme di vita siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità terrestre con un destino comune.”
La nostra casa è in fiamme. Non sto solo pensando ai giganti incendi dell’estate 2019, dove in Siberia hanno portato alla distruzione 4,3 milioni di ettari di foresta che corrisponde un’area più grande del Belgio emettendo cosi oltre 166 milioni di tonnellate di anidride carbonica che equivale circa lo scarico di 36 milioni di auto in un anno e non mi riferisco neanche alle immagini dei enormi fuochi nel Amazonia e in Africa, visibili dai satelliti, ma penso che la nostra casa stia bruciando soprattutto perché la nostra civiltà si basa essenzialmente sul fuoco. I motori a scoppio, le turbine o le caldaie ciò che fanno funzionare oggi il mondo dei trasporti passeggeri e merci, il comfort nelle costruzioni ma anche gran parte dell’industria, tutto si basa sulla domesticazione del fuoco. Oggi girano più di un miliardo di autoveicoli sulla Terra, poi abbiamo una flotta di aeri che ormai si trova continuamente in aria trasportando all’anno un qualcosa come quattro miliardi di passeggeri e infine abbiamo un’infinità di abitazioni, fabbriche e uffici che vogliono essere riscaldati e climatizzati. È giusto preoccuparsi dei boschi infiammati ma dobbiamo aprire gli occhi per affrontare la più grande crisi dell’uomo che ha cominciato 150 anni fa con la terza e la più profonda rivoluzione nella storia dell’homo sapiens. In altre parole la nostra casa comune è in fiamme perché stiamo bruciando su questo piccolo e fragile pianeta una massa inimmaginabile di carburanti e combustibili fossili.
Per fare funzionare la nostra civiltà consumiamo ogni giorno 100 milioni di barili di petrolio (un barile sono 159 litri), 22 milioni di tonnellate di carbone e 10 miliardi di metri cubi di gas. Sono volumi talmente giganti che non riusciamo a comprenderli. Per renderci conto della nostra follia aiutano forse di più delle immagini: ogni giorno ci servono 50 petroliere piene di petrolio per accontentare la nostra fame di energia. Ognuna di queste petroliere trasporta due milioni di barili – sono navi talmente grandi che il personale a bordo gira in bicicletta. Per esprimere invece la massa di carbone giornalmente utilizzata prendiamo un treno. Riempendo i vagoni con 22 milioni di tonnellate di carbone serve un treno che raggiunge una lunghezza di quasi 4.500 chilometri. Per contenere invece i 10 miliardi di gas che giornalmente consumiamo ci servirebbe un pallone con un diametro di circa 2.700 metri.
Voglio ricordare che l’utilizzo di prodotti fossili è una continua distruzione di materie prime trattandosi di materiali non rinnovabili e gli effetti dei processi di combustione hanno un impatto su tutti gli ecosistemi della terra. Ma anche quella parte del petrolio che non viene utilizzato per fare funzionare i vari motori ma serve per la produzione di prodotti come le plastiche è diventato un problema globale. Giorno per giorno trasformiamo con la formula universale “usa e getta” milioni e milioni di prodotti in rifiuti che finiscono ovunque. Negli anni questo comportamento ha prodotto plastiche in tutte le sue forme che galleggiano come isole artificiali negli oceani ed elementi si trovano ormai in grande profondità dei mari, nei deserti come anche sulle cime dei ghiacciai.
La biosfera dove si manifestano tutte le forme di vita è un piccolissimo strato che avvolge la Terra. È una fascia alta una decina di chilometri e ancora di meno in profondità, dove la vita si può manifestare e tutte le sue articolazioni si sono sviluppate partendo da un “minestrone” primordiale circa 3,5 miliardi di anni fa. La specie umana si presenta molto tardi sui gradini dell’evoluzione, ma con una vera e propria esplosione demografica che ha inizio cent’anni fa, questa specie si sta appropriando della natura. Dimenticando che anche l’uomo è natura e fa parte della natura. Con l’industrializzazione comincia a saccheggiare l’habitat in cui si trova. Prende ciò che gli serve e butta ciò che non gli serve più, in sostanza vede la natura come un enorme Ipermercato. Ipermercato forse non è la parola giusta, perché i prodotti nello Store hanno comunque un prezzo, anche se sono offerte, invece l’uomo preleva le materie prime senza pagare niente. Non solo che prende risorse dalla natura a costo zero, scarica anche senza pagare ciò che creano gli scarti – CO2 e inquinanti – della lavorazione. Attuale ritmo dell’economia mondiale richiede il consumo di quasi 93 miliardi di tonnellate di materie prime tra minerali, combustibili fossili, metalli e biomassa. Significa che ogni persona mediamente consuma ogni giorno 33 kg di materie prime. Di queste materie prelevate e consumate solo il 9% sono riutilizzate. Attenzione alla parola “mediamente”, perché non abbiamo un’equa distribuzione dei beni. La gran parte della torta se la mangiano i paesi ricchi del pianeta. Più della metà della popolazione mondiale si deve accontentare delle briciole. E ancora siamo sulla via dell’accelerazione. Il consumo di risorse è triplicato dal 1970 e potrebbe raddoppiare entro il 2050.
Possiamo proseguire su questa strada? Vogliamo ancora correre sulla strada del più veloce, più alto, più grande, più consumo, sapendo – se riflettiamo seriamente senza dover rincorrere a spiegazioni di esperti – che questi comportamenti ci porteranno verso l’abisso?
Sono convinto che ciò che ognuno di noi porta a spasso, pesa circa un chilo e mezzo e che si chiama cervello, è sufficiente per comprendere almeno in grande linee le essenziali domande della vita. Anche se manca una specifica formazione che ovviamente può aiutare ad approfondire le varie tematiche, il nostro cervello con il buon senso è abbastanza affidabile. Tra altro quest’organo consuma un sacco di energia, nonostante che occupa solo il 2% del peso corporeo, il cervello umano si mangia oltre il 25% del budget energetico di tutto l’organismo. Il cervello di un bambino di quattro anni, consuma addirittura i due terzi dell’energia dell’intero organismo, e a cinque anni raggiunge il picco assoluto.
Perciò il nostro buon senso ci dice che continuare a crescere in un mondo chiuso come, di fatto, è il nostro pianeta, non può funzionare. La Terra è un sistema chiuso per ciò che riguarda le risorse, energia a parte perché qui la fonte principale fornisce il sole. Gli unici a credere all’infinita crescita sono gli economisti. Oltre al consumo di risorse si aggiungono le diverse forme di inquinamento che sono collegate al ciclo produttivo tra prelievo della materia prima, prodotto finito, uso e smaltimento.
Imboccare la strada in direzione sostenibilità, significa prima di tutto agire sulla riduzione di tutti i consumi e favorire scelte con minor impatto ambientale e sociale. Senza nuovi comportamenti questi risultati rimarranno solo concetti teorici. Subito ci scatta la domanda, che ci poniamo da molto tempo: perché non facciamo quello che dovremmo fare? Le reazioni immediate di tutti nelle manifestazioni e nei dibattiti sono identiche: anche se io cambiassi, che impatto avrebbe il mio contributo di fronte a questi scenari?
Per questo termino i miei interventi nei vari convegni e conferenze che tengo da anni pellegrinando dal nord al sud e da est a ovest con la favola del colibrì.
Un giorno scoppiò nella foresta un incendio devastante e tutti gli animali fuggirono.
A un tratto il leone vide che volava un piccolo colibrì proprio in direzione dell’incendio.
Allora, preoccupato, tentò di fermare l’uccellino per fargli cambiare direzione, ma il colibrì rispose che stava andando a spegnere l’incendio.
Il leone, meravigliato, replicò che era impossibile spegnere l’incendio con la goccia d’acqua che portava nel becco.
Allora il colibrì, sempre più deciso, parafrasò al re della foresta:
Io faccio la mia parte e questo crea la differenza.
Questa favola vuole invitare a non rassegnarsi, ma diventare un attore attivo per un mondo diverso, prendersi cura della casa comune. Essere colibrì significa di non nascondersi dietro la scusa “…il mio contributo di fronte ai comportamenti di miliardi di Cinesi e Indiani è irrilevante…”.
Io non posso salvare il mondo, bensì posso fare la mia parte e se siamo in tanti a pensare e agire cosi le cose cambieranno e cambieranno in fretta. Fare il colibrì dimostra anche di voler contrastare l’indifferenza, un altro atteggiamento molto diffuso e pericoloso. Assistere alla corsa verso l’autoestinzione non può essere l’atteggiamento di un essere cosciente e responsabile, non possiamo metterci la veste di osservatore cinico o sarcastico.
Essere un colibrì per il clima vuole dire anche comunicare che non lasciamo spazio ai negazionisti che è il gruppo più resistente alle azioni per salvaguardare il clima. Sono pericolosi perché seminano dubbi e insicurezza e portano acqua ai mulini di chi dovrebbe prendere le decisioni per ridurre le emissioni di gas climalteranti, giustificando la loro inerzia.
Il colibrì non si limita solo a riflettere e cambiare il proprio stile di vita, per non fare diventare il dibattito sul clima una missione morale, ma vive la sua responsabilità anche come essere sociale. Osserva attentamente e prende posizione in tutte le occasioni in cuisi possono orientare le scelte nella direzione di un’economia eco-sociale: tutelare clima e ambiente richiede di combattere l’ingiustizia sociale. Le parole pronunciate da Papa Francesco durante il suo viaggio in Madagascar (settembre 2019), che negli ultimi dieci anni è stato colpito da quarantacinque tra cicloni e tempeste tropicali, non lasciano dubbi: «Non può esserci un vero approccio ecologico né una concreta azione di tutela dell’ambiente senza una giustizia sociale».
In sostanza il colibrì si muove su due binari, quello personale, dove mira ad alleggerire il proprio zaino di CO2 con scelte appropriate nello stile di vita e quello dove cerca di assumere un ruolo come figura pubblica sociale che contribuisce al cambiamento economico, sociale e culturale. Solo in questo modo si potranno avere correzioni per esempio sugli errori sistemici, correzioni che sono però essenziali per produrre gli effetti desiderati. Un esempio concreto sono i voli in aereo. Ormai tutti sappiamo, che è uno dei mezzi più inquinanti in assoluto. Però questa conoscenza non ha portato a ridurre l’uso di questo mezzo di trasporto, anzi da anni il numero di passeggeri è in crescita. Siamo arrivati a più di quattro miliardi di persone che in un anno hanno scelto l’aero per spostarsi. Si stima che quest’anno i passeggeri voleranno per circa 8,1 trilioni di chilometri girando per il mondo, il 5% di più rispetto all’anno scorso e il 300% in più rispetto al 1990.
Sulla panchina degli accusati che usano l’atmosfera come discarica, non si trovano solo gli aeri, ma anche le automobili. Ogni litro di benzina bruciato emette 2,35 chilogrammi di CO2 e un litro di Diesel 2,65 chilogrammi. Senza dimenticare che per portare la benzina dal distributore sono già stati emessi dai 500 fino a 700 grammi per ogni litro di benzina.
Come giudicheranno i nostri discendenti l’era del fossile? Consumavano ogni secondo 45.000 litri di carburanti fossili e per che cosa? Per avere un inquinamento da veicoli che costa 70 miliardi euro all’anno ai 28 paesi della Ue per i servizi sanitari che servono per curare le varie malattie ai polmoni e al cuore.
Se esiste un diritto al futuro, l’imperativo si chiama abbandonare completamente derivanti di petrolio e gas senza perdere ulteriormente tempo.