La domanda di senso
di Monica Febo
Da una parte una vecchia signora e la sua capra, dall’altra un anziano prete. Sullo sfondo un piccolo borgo di montagna ad inizio ‘900, suoni di greggi e pastori, frastuono di bambini e chiacchiere di paese.
La donna è da poco arrivata nell’abitato, passa la giornata china sull’argine del torrente a lavare su commissione stracci e budella di animali, accompagnata dalla sua capra. Suscita la curiosità del prete perché ancora, dopo settimane, non si è presentata a lui e non è mai capitata in chiesa.
Il prelato la va a cercare, la osserva da lontano, chiede informazioni su di lei.
Dopo mesi, è la donna a rompere il silenzio. Si presenta al prelato spinta dall’urgenza di una domanda. L’uomo le indica una seduta ma lei resta in piedi, seppure con atteggiamento riverente. La questione è di tipo esistenziale: Come si concilia la vita con la dottrina religiosa? Come dialoga l’unicità della vicenda umana individuale con l’astrattezza della regola?
Tra l’infastidito e il deluso per l’enormità della domanda, il prete risponde con parole non sue. La dottrina è chiara e inflessibile.
Ma si è aperto un varco. Tra la dimensione orizzontale della vita incarnata, fatta corpo e biografia, che si esprime nella coppia donna-capra (doppio animico, quest’ultima, della donna) e la dimensione verticale del prete, di un’altezza iperbolica sulla scena (la regola, la dottrina, fino al rigore e all’inflessibilità), si apre lo spazio della ricerca spirituale. Una sorta di piano cartesiano di indagine. La donna porta la domanda umana del corpo che anela al sovrasensibile; il prete ha in mano le fila della metafisica e riporta i piedi a terra nell’avvertire la pregnanza della questione posta. È lo spazio essenziale della spiritualità incarnata, tema a cui abbiamo dedicato incontri dei gruppi di studio tra l’inverno e la primavera scorsi, l’ambito fertile ma scosceso e instabile della ricerca di senso.
Eppure il dialogo non sia avvia, non avviene un passaggio trasformativo che apra il percorso tortuoso del confronto. Oltre le schermaglie tra i due, non avviene l’incontro tra un io e un tu entrambi incarnati e protesi verso l’assoluto.
Si resta abbagliati dalla necessità della domanda di senso, e colpiti dalla forza e dalla vividezza dei personaggi sulla scena. L’invito sembra quello di sostare sulla domanda piuttosto che approdare ad una risposta, di stare nella ricerca accogliendone la precarietà, la fatica, l’inesauribilità.
Si può, sai, stando qui
Sostenere una stella (…)
Si può festeggiare ogni onda
Scandire i fili d’erba
E nominare nell’aria il bene
(Mariangela Gualtieri)