Justice e Hope
“Il tram procede spedito, certe cause producono certi effetti, ma noi non sappiamo più quale sia il nostro dovere, perché viviamo, perché moriamo.” Max Weber
Qualche giorno fa Justice mi ha chiesto di accompagnarlo a casa perché è senza patente. Davvero originale il suo nome che non penseremmo mai di dare ai nostri figli. Al contrario, servirebbe proprio per ricordare quanto sia importante il significato del termine GIUSTIZIA.
Ma chi è Justice? È un ragazzo del Ghana che in questi giorni sta pulendo le rive dei fossi nei pressi di casa. Nei pochi minuti che impieghiamo per il tragitto in auto, mi racconta, in un italiano approssimativo, che ha 39 anni e che ha raggiunto il nostro paese due anni fa dopo aver lavorato per molti anni in Libia. Dopo essersi sposato, sua moglie, sempre ghanese, non poté raggiungerlo perché la situazione in quel paese era molto pericolosa. Cercarono, quindi, di restare in Ghana ma per motivi religiosi gli fu impedito di continuare a vivere lì. Justice è di fede cristiana mentre sua moglie, di famiglia musulmana, si convertì al cristianesimo. Questa situazione, non tollerata dalla famiglia della moglie, li costrinse ad emigrare ed a trovare ospitalità in Italia per motivi umanitari. Mentre si snodava il suo racconto, mi riaffioravano le immagini viste tante volte in televisione di vecchi camion e fuoristrada zeppi, all’inverosimile, di persone che attraverso il deserto raggiungevano la costa per iniziare la traversata del Mediterraneo verso un futuro pieno di speranza. Questa immagine si sovrapponeva a quella dei processi di desertificazione in costante crescita, non solo nel continente africano, a causa dei cambiamenti climatici causati dall’azione dell’uomo. Il mio pensiero si blocca perché siamo giunti a casa di Justice. Sulla porta lo aspetta sua moglie e la loro piccola figlia Emanuela di quasi due anni con delle bellissime treccine. Ci siamo salutati ma risuonava ancora il suo racconto e su quel racconto scorrono le immagini che si intrecciano e delineano un quadro sempre più chiaro. Immigrazione, disuguaglianza economica e sociale, discriminazione, assenza di diritti, sono il frutto di un processo che attraverso lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del nostro pianeta ha creato forti disparità nella distribuzione della ricchezza tra le popolazioni e, come ultima tappa di questo processo, sta minacciando la nostra esistenza a causa dei cambiamenti climatici. Sempre più si ascoltano voci pessimiste sul futuro dell’umanità ed appare piuttosto facile, alla luce di ciò che vediamo quotidianamente, assecondare queste opinioni. Davvero non c’è via di uscita da questa situazione? L’umanità ha sempre appreso dai propri errori e non c’è ragione di credere che non sia possibile utilizzare il cambiamento del clima per produrre un clima di cambiamento. Questo clima si deve nutrire di consapevolezza, competenza e tecnologie al servizio di un progetto che rimetta l’uomo al centro dell’interesse collettivo. Fino ad oggi, invece, il protagonista di questo processo è stato il profitto. Non è più tollerabile che si continui a ragionare in termini di prodotto interno lordo per misurare il benessere di una comunità. Le aberrazioni conseguenti a questo approccio hanno condizionato il nostro modo di vivere sviluppando una corsa verso l’accumulazione di denaro con il corollario di un individualismo sfrenato che ha minato le fondamenta della nostra convivenza. Mi aveva colpito una frase del sociologo e storico Max Weber che, già nei primi decenni del secolo scorso, riflettendo sui comportamenti umani scriveva: “Il tram procede spedito, certe cause producono certi effetti, ma noi non sappiamo più quale sia il nostro dovere, perché viviamo, perché moriamo.”
I concetti di solidarietà e comprensione dei bisogni dell’altro sono scomparsi dal lessico della comunità umana. Per produrre un clima di cambiamento, tuttavia non è sufficiente la consapevolezza e la competenza a tutti i livelli. Occorre sostenerlo con una componente che non ci deve mai abbandonare. Ricordo che qualche anno fa, nel gruppo di immigrati a cui insegnavo italiano, c’era una ragazza nigeriana che, al pari di Justice, mi colpì per il suo nome: si chiamava Hope (Speranza). Ecco la componente che non deve mai mancare in chi vuole contribuire al clima di cambiamento cui accennavo. È la SPERANZA che ci deve condurre verso una comunità di uomini e donne dove si riscopra e si pratichi la solidarietà come elemento distintivo e si pongano le basi di una società che abbiamo il dovere di progettare e costruire perché ci sia un futuro per chi verrà dopo di noi.
Giuseppe Mezzino
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