Mia madre mi ha dato alla vita

di Maurizio Stupiggia

Mia madre mi ha dato la vita, si dice di solito.  Ma nel mio caso devo dire che mia madre mi ha dato alla vita, nel senso che non ha esitato un attimo a fidarsi del potere profondo dell’esistenza; mi ha messo nelle sue mani potenti e cieche, dicendomi, senza parole, che io e lei, la vita, avremmo fatto cose buone insieme, e che l’unica regola da cui non avrei dovuto prescindere era starci attaccato il più possibile.   A volte ho pensato che mi avesse scaricato, o che addirittura non avesse mai adempiuto ai suoi doveri di madre; ora che ho attraversato gran parte del mio tempo, penso semplicemente che lei mi abbia consegnato al mondo e alle sue trame, figlia di una generazione che capiva quanto poco fosse importante la volontà del singolo di fronte alla storia dei popoli e della provvidenza.

“Quando ho sentito che si stavano rompendo le acque, ho fumato l’ultima sigaretta e in bicicletta sono corsa in ospedale”, questa era la frase che mia madre mi ripeteva ad ogni mio compleanno, per sottolineare che lei era vissuta di corsa, e a questo ero destinato anch’io.

E così sono volato verso la vita senza nessun dubbio rispetto al fatto che bisognava fare in fretta.   Solo parecchi anni dopo, quando ho cominciato a frequentare gente che non era stata nutrita dalla stessa linfa delle mie radici, mi sono accorto che non erano tutti come me, che non tutti erano stati lanciati nel mondo a grande velocità, ma che la maggioranza dei miei coetanei poteva anche stancarsi, impigrirsi o addirittura rifiutarsi di fare qualcosa.   Io ero stato programmato per correre, agire e non fermarmi a pensare.

Quando anni dopo, durante i miei studi di filosofia, ho letto Heidegger, mi è sembrata poca cosa la sua critica all’infondatezza e inautenticità di quel tipo di esistenza basata su quello che lui definiva Geworfenheit, “essere gettato “nel mondo; io ero stato addirittura sparato nel mondo, e facevo molta fatica a rallentare, per assaporare il tempo e le cose.

Forse per questo unico e silenzioso comandamento ho sentito fin da bambino una struggente paura di morire; rallentare era sinonimo di agonizzare, e fermarsi era ovviamente morire.

“Partire è un po’ come morire” recita il famoso detto popolare, ma per me è sempre stato il contrario!

Oggi sono qui, fermo da un mese, nel mio studiolo di casa, a guardare con tenerezza le mie valigie che spuntano malinconiche dall’angolo dell’armadio.

Sto bene, non sono morto e provo un certo sollievo per lo scampato pericolo, e l’unica morte che mi stringe la gola è quella di mia madre a cavallo della sua bicicletta.

 

 

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